I racconti del Premio Energheia Africa Teller

Il comune senso della giustizia_Joseph Ng’Ang’a Gichumbi

1crplPadreFiglio[1]_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia Africa Teller.

 

Traduzione a cura di Mariella Silvestri

 

PARTE 1

Erano le 12 di mattina, ora dell’Africa orientale. Kip Edwards, un giovane

sui venti anni, atletico e allegro, guidava una BMW bianca metallizzata

oltre i cancelli della sua lussuosa dimora. Il residence Muthaiga, una

tenuta verdeggiante per l’élite dominante keniana. Derivante dalla parola

popolare Agikuyu che vuole dire “fascino magico”, la tenuta Muthaiga

ha continuato inesorabilmente a incantare i keniani di tutte le età.

Tranne le cameriere indiane, i cuochi e i giardinieri, che si potevano vedere

camminare con noncuranza, i residenti di questa tenuta, come se osservassero

una regola non detta fra di loro, raramente si avventurano fuori

delle loro macchine lucenti, scegliendo invece di rimanere nell’ombra

dei loro veicoli dai vetri oscurati.

Non ci sono dubbi per molti keniani che Muthaiga rappresenti il vero, inattaccabile

potere.

Questo è il potere che Kip Edwards sentiva dietro le ruote mentre costringeva

la macchina possente a fermarsi. Gli uomini di potere hanno i loro modi

fissi di fare le cose e così col tempo, Sir Kip, come lo chiamava con condiscendenza

il suo domestico, cominciò a rappresentare ogni cosa connessa

con il potere e con le persone potenti.

La cosa più condivisibile, pensò Sir Kip fra sé, era di non associarsi mai

con i poveri. “La povertà puzza” sbottò, appena fu uscito dalla macchina

con la chiave in mano e si fu diretto verso l’imponente porta di mogano

del suo palazzo regale.

 

PARTE 2

Lei giaceva immobile su un enorme letto metallico. L’unico indizio che

il rigor mortis aveva preso piede era la mortale sporgenza degli occhi che

nascondevano il segreto della sua morte.

 

PARTE 3

“Il professore” Dan Miriti, un calzolaio locale di Kawangware, un sobborgo

povero alla periferia di Nairobi, si era guadagnato questo titolo grazie

alla sua perizia nel mestiere. Conosciuto per il suo zelo, il cameratismo

e il gusto per la vita, l’indole buona di Miriti lo aveva reso naturalmente

famoso. Nato lungo i pendii del Monte Kenya nella tribù Ameru,

Dan Miriti era cresciuto in una famiglia molto povera. Suo padre, il grande

Ntibi’ri, un erborista di fama, era morto povero nonostante la ricca eredità

che aveva lasciato alla sua gente. Quando gli veniva chiesto perché

non trasformasse questa grande ricchezza di conoscenze in un tentativo

di profitto nell’interesse della sua famiglia che era povera, Ntibi’ri rispondeva

sempre: “La salute della mia gente è la mia ricchezza”.

Questa filosofia preoccupava il giovane Miriti. Aveva il recondito sentimento

che suo padre non li avesse amati. Dopo tutto non aveva mai insegnato

la sua arte a nessuno dei suoi undici bambini!

Dopo la sua circoncisione alla tenera età di diciotto anni, Miriti decise di

avventurarsi nel mondo da solo. Dopo la circoncisione, un giovane Ameru

può sposarsi, e può cominciare a metter su famiglia. Ma Miriti la pensava

diversamente. Dotato solamente di conoscenze tribali e informali,

lasciò per sempre la casa una domenica mattina. Questo era il momento

perfetto per scappare, in quanto il vecchio Ntibi’ri lasciava che il sonno

lo accompagnasse fino a tarda mattina.

 

PARTE 4

All’inizio pensò che il puzzo provenisse dalla buca dell’immondizia. Ma

dopo un esame accurato, il signor Gavex Otieno, un impresario di pompe

funebri in pensione, si convinse che l’odore acre provenisse da carne

in decomposizione. Ma di chi? Dove? Certamente non era quella di un

animale. Di questo era sicurissimo. Avendo maneggiato cadaveri per un

quarto di secolo, il signor Gavex era in grado di riconoscere tipi diversi

di odori. Valutò che il proprietario dell’odore doveva essere morto da almeno

tre settimane. Conoscendo l’eccentrico sistema di polizia keniano,

doveva prendere l’iniziativa prima che loro cominciassero a bussare alla

sua porta per Dio-sa-che-risposte!

“Buon pomeriggio, signor detective”, disse Gavex dopo aver aggiustato

la manica della sua camicia per leggere l’ora sul suo onnipresente Rolex,

acquistato durante i suoi giorni da studente nella Germania occidentale.

“Cosa c’è di buono nel suo pomeriggio, straniero?”, rispose con un rimbombo

una voce autoritaria.

“Non molto, il mio nome è Gavex Otieno, chiamo dalla tenuta Jamhuri,

casa numero Z774X. I suoi uomini dovrebbero venire qui velocemente.

C’è un puzzo forte di carne umana morta che proviene dalla casa del mio

vicino”.

“Arriviamo subito!”.

Dopo queste poche battute, la linea si interruppe.

 

PARTE 5

I detective della squadra volante sono l’unità più temuta del Kenya. Hanno

guadagnato il loro nome grazie alla fulminea velocità con la quale rispondono

alle chiamate di soccorso.

Erano passati appena dieci minuti dal suo breve colloquio col capo della

polizia quando sentì forti colpi sulla porta di casa.

“Fungua hapa haraka sisi ni polisi”, disse una voce resa roca dal whisky.

Aveva appena aperto la serratura principale che irruppe un contingente di

uomini armati fino ai denti e dall’aspetto feroce, che rovesciarono tutto

come avrebbero fatto sciami di locuste in un giorno sereno.

Dopo avere divorato tutto il commestibile nell’enorme frigo “made in China”,

il capo del contingente dalla pesante costituzione e dalla pancia a forma

di pentola, sulla quarantina, emise dei suoni in uno strano accento inglese.

“Sei lei il signore Ngovi O. Dovunque?”

“No, il mio nome è signor Gavex Otieno, non Ngovi-dovunque!”

“Lei vuoi insaltare ambrois mcapo?”

“No, amico, è lei quello che mi ha insultato dissacrando la mia casa col

suo comportamento goffo. Nondimeno, non è questo il luogo della mor-

te, di cui si deve occupare. La casa è là, numero 2775X. Buona fortuna.”

Il capo fu preso tanto alla sprovvista dalla compostezza dell’uomo anziano

che per un momento perse il suo equilibrio mentale.

“Ba, una in più domanda”. Il capo sparò verso Gavex uno sguardo penetrante

mentre si massaggiava istintivamente la pancia a forma di pentola.

“Vecchio, che era lei provessionalmente parlando?”

“Un impresario di pompe funebri”, fu la dolce replica.

Bastava. Il contingente andò via tanto affrettatamente quanto era venuto.

Il signor Gavex proruppe in una risata sguaiata. Aveva già incontrato

prima tipi del genere. Orgogliosi di fronte agli uomini, umiliati dalla

morte!

 

PARTE 6

“Le notizie che abbiamo appena ricevuto dicono che la polizia ha scoperto

un corpo di donna in decomposizione in una tenuta di Jamhuri. La

polizia sta facendo appello a chiunque abbia informazioni sulla sua morte,

affinché le rilasci volontariamente a qualunque stazione di polizia. Queste

informazioni saranno trattate con riservatezza”.

Con ciò si concluse il notiziario televisivo delle 13 sul canale nazionale.

Era un martedì dell’agosto 2000. Macho Man aveva appena finito il pranzo

quando sentì le notizie. Allevato nello slum2 di Mukuru kwa Njenga

sviluppatosi disordinatamente alla periferia della città, Macho Man era

cresciuto in grande povertà. Senza istruzione formale, aveva cominciato

a lavorare alla tenera età di quindici anni come manovale occasionale in

una delle innumerevoli industrie gestite da asiatici adiacenti alle strutture

precarie che lui chiamava casa. Col tempo arrivò a detestare gli insulti

lanciati a volontà dai capi asiatici verso i lavoratori africani. Un giorno

un ragazzo asiatico, il figlio del suo capo, lo chiamò Ghasia takataka (immondizia,

spazzatura) per essere arrivato con venti minuti di ritardo al lavoro.

L’orgoglio ferito che lo aveva divorato per anni si scatenò improvvisamente

e con proporzioni vulcaniche. Con una gragnola di pugni aveva

steso il ragazzo, rompendogli i denti anteriori. I suoi compagni africani

lo avevano incitato a gran voce e Macho Man era riuscito a fuggire inosservato

dalla scena del crimine. Grazie alla sua bassa statura poteva in-

fatti apparire e scomparire inosservato. Da questo episodio, imparò la prima

regola nel gioco della sopravvivenza: il comune sentire prevale dopo

la guerra. Ma ciò era successo molto tempo prima.

E così quando gli chiesero di rapire la ragazza scura per loro, pensò che

fosse uno scherzo sciocco. Si prestava a lavoretti piccanti, non ai rapimenti.

Ma se loro potevano dargli 200.000 scellini per il lavoro, perché no? Dopo

tutto il limite è chapaa, i soldi. Era sicuro che fossero la fonte di ogni

rispettabilità.

 

PARTE 7

Sedette pensieroso sul prato ben curato della sua casa mabati a due stanze.

Da quando era giovane, aveva preso la decisione di non emulare mai

suo padre. Voleva dare ai suoi bambini il meglio dell’istruzione che a lui

era mancato nella vita. E attraverso il duro lavoro il “professor” Miriti fece

in modo che tutti i suoi tre bambini andassero a scuola. Il figlio preferito

era la primogenita Irene Kathure, studentessa al terzo anno di Medicina

all’Università di Nairobi. L’aveva chiamata come sua madre, seguendo

la tradizione.

Ed ora lei mancava da casa da tre settimane e nessuno aveva alcuna idea

di dove potesse essere…

Sua moglie, Maria Kanini, una donna di mezza età tarchiata e imperturbabile

interruppe il filo dei suoi pensieri.

“Baba Irene, ero al mercato quando Maria Atieno mi ha riferito la notizia

di un corpo di donna scoperto in una delle tenute. Devo partire immediatamente

per trovare dettagli presso la stazione di polizia di Muthangari.

Te la senti di venire con me?”.

“Chi ha detto che le donne sono deboli?”, pensò il professor Miriti. “Se

mai si può dire che un sesso forte esiste, è senza dubbio quello femminile!”.

Non aveva bisogno della laurea in Psicologia per saperlo. Diritta di

fronte a lui, c’era l’incarnazione di questa sorprendente conoscenza umana.

“Andiamo mama watoto”, fu la replica sottomessa.

 

PARTE 8

La signora Maria Kanini, un’insegnante di scuola in pensione, credeva

nell’utilità di una disciplina severa e inflessibile dietro alla sua maschera

pubblica di mitezza. Inoltre, era calcolatrice e vendicativa, e non permetteva

mai che qualcuno attraversasse la sua strada. Ma la sua vendetta veniva

effettuata con tale precisione e riservatezza da fare contorcere George Bush

per l’invidia.

La parola perdono non era mai parte del suo vocabolario operativo nonostante

il suo ruolo di segretario generale della chiesa locale. Il suo più grande

idolo era suo padre, il temuto colonnello N’thamburi che aveva lottato contro

i colonialisti britannici nelle vaste foreste del Monte Kenya con gli insorti

Mau Mau. Entrambi avevano sottoscritto pienamente il Principio del

Vecchio Testamento: “Occhio per occhio, dente per dente”.

Non ebbero bisogno che un matatu3 li portasse alla stazione di polizia. Il

biglietto di 40 scellini per entrambi era molto al di sopra del loro bilancio

giornaliero. In tutta la loro vita, erano stati abituati a camminare per

distanze anche più lunghe dei cinque km che dovevano coprire.

I loro corpi resistenti erano stati abituati ad anni di fatica, fame, dolori e

fallimenti. Piuttosto che separarli, questa realtà dolorosa li aveva uniti ogni

giorno di più. I loro yang e yin li univano in una fusione sorprendente tale

da fare meravigliare gli angeli di tale rarità fra uomini.

L’ addetta alla reception della stazione di polizia di Muthangari li fece

entrare immediatamente dopo un breve scambio di convenevoli.

Dietro l’enorme scrivania di mogano c’era l’Ispettore Capo Juma Baridi,

un uomo occhialuto e magro sulla trentina. La sua repentina ascesa nella

polizia era dovuta in parte alle sue credenziali accademiche e professionali

eccellenti e in parte a un suo zio materno, ministro di Gabinetto.

Era al ministro in persona che doveva la massima fedeltà. Aveva imparato

molto tempo prima che in Kenya nessuno sale più velocemente i gradini

della società senza un padrino.

“Cosa posso fare per voi Mzee e Mama?” disse gentilmente nella sua dolce

voce di contralto.

“La mia cara moglie ha sentito l’annuncio da uno dei canali televisivi, riguardante

la scoperta di un corpo di donna. Nostra figlia Irene Kathure,

una studentessa in Medicina, manca da casa dalle ultime tre settimane.

Voleva essere sicura che non fosse lei”.

Con un rapido sguardo l’Ispettore Capo Juma si convinse che i due di fronte

a lui, nonostante i vestiti mitumba (di seconda mano) stirati, avesse-

ro visto pochi giorni migliori in vita loro. E così chiedere loro se avevano

un veicolo sarebbe stato un insulto inimmaginabile alla loro dignità.

“Mzee e Mama, se non vi dispiace, vi porterò con la mia auto all’obitorio

cittadino dopo che avrete compilato il registro apposito”.

“Molto obbligati signore”, risposero all’unisono.

 

PARTE 9

Il rapporto dell’autopsia era già pronto. Siccome Miriti e sua moglie non

erano pratichi della legge, non sapevano che c’era una violazione della

legge nel condurre un’autopsia senza che fosse presente un parente

prossimo. Mentre spostava il suo sguardo dal gentile Patologo Capo al

corpo gelato che giaceva di fronte a lui, fu afferrato da un desiderio animale

di lacerare e consumare in un lampo, ma chi? cosa? dove?

“È sua figlia?”

Era miglia lontano nel regno dell’utopia. Ci volle la leggera spinta di

sua moglie per farlo ritornare alla realtà.

“Ti sta chiedendo”, proseguì la signora Miriti, “se questa è la nostra Irene

Kathure”.

“Sì, signore, è senza dubbio nostra figlia. Voglio essere sicuro di una

cosa. Lei ha detto che è stata stuprata, e poi colpita con un’arma da fuoco

alla tempia sinistra?”

“Sì, signore”, concluse il Patologo Capo. “Ed ora se lei me lo consente,

gradirei rimettere il corpo nel frigo”.

Subito dopo lasciarono l’obitorio della città ognuno immerso nei propri

pensieri.

 

PARTE 10

“Lei è morta. È un fatto. Rimuginare non ti aiuterà. Sii uomo. Salva il

tuo orgoglio”. Questi commenti fatti da sua moglie lo punsero come api.

Sì, doveva salvare il suo orgoglio. L’unico modo era arrivare all’assassino,

ma come? Di una cosa era sicuro. Avrebbe vendicato l’uccisione

brutale di sua figlia, anche se ci avesse messo tutta la vita. Lui non aveva

niente da spartire con un sistema legale debole. L’assassino o gli assassini

si erano già scavati la fossa. Loro avevano attivato il veleno

del figlio di Ntibiti’ri. Gli antenati non gli avrebbero dato il benvenuto

nel mondo dell’aldilà se lui non fosse riuscito a difendere l’indifeso,

sua figlia.

Essendo un tradizionalista fedele, la sua prima fermata doveva essere

sulla soglia di Kiraithe. Kiraithe l’acclamato erborista-indovino Meru

che si riteneva avesse risposte anche al più complesso degli enigmi

umani. Avrebbe avuto bisogno di una settimana intera per questa missione,

ma era pronto.

 

PARTE 11

Ora era ufficiale. I genitori della ragazza deceduta erano persone umili

degli slum di Kawangware. La notizia era divenuta di pubblico dominio

in città. Mentre ascoltava le notizie nel conforto del suo divano,

Macho Man sentì un dolore acuto e forte farsi largo attraverso il torace.

Gli avevano mentito!

Le sue attività criminali non erano mai dirette contro i poveri. I poveri

erano il suo sangue, la sua gente. Non aveva mai pensato che assassinassero

la bella ragazza. Pensava che volessero solo divertirsi come gli

avevano assicurato. Come avevano potuto eliminarla così brutalmente?

Perché? Perché si uccide una ragazza povera? Dov’è il guadagno? Quando

vide i genitori sconvolti sullo schermo televisivo, la sua rabbia divenne

furia. La sua missione era sempre stata diretta contro i puzzolenti

ricchi che avevano ottenuto la loro ricchezza aggirando il sistema giudiziario

e alimentandosi del sangue degli holloi-polloi, i disgraziati della

terra. Come avevano osato?

Non aveva toccato i 200.000 scellini. Come era sua abitudine avrebbe

usato i soldi che gli erano stati pagati solo dopo aver capito pienamente

i motivi di quelli che lo avevano pagato. Questi soldi erano maledetti.

Doveva fare qualcosa molto in fretta. Il comune sentire prevale solamente

dopo la guerra. La guerra era cominciata.

 

PARTE 12

Localizzare l’alto uomo scuro era facile per Macho Man. Conosceva le

abitudini dei ricchi. Si incontravano in posti precisi ed esclusivi dentro

e intorno Nairobi. E diversamente dai poveri, si muovevano a orari fis-

  1. Per il ricco, il tempo è denaro, mentre i poveri avevano tutto il tempo

che volevano.

Dopo aver inutilmente girato per tutta la città e la periferia per due settimane,

prese infine una decisione. Avrebbe dato retta al suo istinto. Più di

una volta, il suo istinto aveva salvato i suoi progetti. Questa volta era sicuro,

non lo avrebbe tradito.

E così decise di guidare in direzione del Night Club Chizika nella tenuta

di Kileleshwa, un luogo di incontro molto frequentato da ricchi ragazzi

viziati. Era in anticipo. Tranne due Toyota nuove di zecca, il parcheggio

era deserto. Come era sua abitudine in tali missioni, Macho Man osservò

accuratamente il luogo prima di sistemarsi in un angolo appartato che

serviva allo scopo di celarlo ma che aveva il vantaggio di affacciarsi su

tutti i punti di accesso al Club.

Erano le 18,00 ora dell’Africa orientale. Nel giro di un’ora questo luogo

freddo sarebbe stato pieno di vita. La sua missione era precisa. Come un

ghepardo africano che aspetta la sua preda, doveva essere sobrio, invisibile,

vigile e soprattutto rapido, molto rapido. La sua altezza ora era un vantaggio.

Il cameriere alto che gli mostrava la schiena stava in piedi, appoggiato

al palo di cipresso inconsapevole della presenza umana dietro di lui.

Verso le 22,00 egli arrivò in compagnia di una snella signora dalla carnagione

chiara. Era decisamente su di morale. Ora Macho Man era concentrato

sull’obiettivo, e neanche lo stato d’animo sempre più “da carnivoro”

lo avrebbe potuto distrarre.

Verso le 23.05, salutò i suoi compagni di tavola, prese il braccio della

signora e lasciò con grazia il pub. Macho Man si era già avviato verso

la sua macchina nel momento in cui lui si era alzato. Macho aveva sempre

addestrato la sua mente ad anticipare le mosse del suo obiettivo. In

modo inusuale per la maggior parte degli uomini africani, l’obiettivo aprì

lo sportello per la sua compagna, lo richiuse, poi si sedette al volante

della sua BMW bianca e mise in moto. Macho Man mantenne la distanza

di sicurezza guidando la sua Mazda decrepita e scura. Il sospetto era l’ultima

cosa che avrebbe voluto suscitare.

A Moi Avenue, vicino alla Barclays Bank, la signora dalle lunghe gambe

uscì dall’auto. Il cambio di direzione verso Koinange Street indicò

a Macho Man che l’occupante si stava dirigendo verso casa. “I ricchi

sono schiavi delle abitudini e per questo sono obiettivi facili”, rifletté

Macho Man.

 

PARTE 13

Da una certa distanza, Macho Man vide la macchina rallentare puntando

i fari su un imponente cancello nero.

“Quindi questa è la casa”, pensò Macho allibito.

Conosceva la casa come il palmo della sua mano. Il proprietario originario

era stato Kimji Asan, il barone asiatico della droga che era stato

assassinato due anni prima. Questo era il luogo in cui Kimji incontrava

i suoi amici criminali per riunioni notturne e cocktail di mezzanotte

senza fine. Macho aveva le piante di molte ricche case della città

nella tasca interna della giacca. Parcheggiò la sua auto in un boschetto

folto d’alberi e frugò attentamente tra le varie mappe. Dopo cinque

minuti localizzò la piantina della casa di Kimji Asan. Era ora di agire.

Armato solamente della sua spada somala, Macho aprì un varco nella

parte orientale del recinto. Dopo averlo attraversato, trovò il punto che

voleva: un punto di entrata sotterraneo e segreto celato da una pianta

fiorita. Dopo averla rimossa, scese lungo il lurido tunnel che conduceva

alla casa. Sorprendentemente la maniglia cedette facilmente permettendogli

di entrare.

Si sedette su uno dei sofà con tutti i sensi all’erta. Poi sentì la porta principale

di mogano aprirsi e vide le luci accendersi. Lo sguardo di sorpresa

sulla faccia di Kip Edwards fece quasi ridere Macho Man. Aveva

già visto quello sguardo.

“Cosa diavolo…?”, chiese Kip Edwards.

“La prenda allegramente, kjiana. Voglio che segua le mie istruzioni e

andrà tutto bene. Mi dia un CD vuoto, ora”.

“OK”.

Kip Edwards recuperò il CD da un pacco di libri su una delle mensole.

“Grazie. Ora voglio che mi dica tutto quello che è accaduto dopo che

le ho portato la maledetta ragazza. Non le farò nessun’altra domanda.

Lei parlerà e il registratore registrerà tutto. Ho bisogno di una copia

per me. Io amo le raccolte storiche, lo sa…”.

Kip Edwards conosceva le persone di quel genere. Nessuno scherzava

con loro. Erano mastini da guerra. E così cominciò la sua narrazione

degli eventi.

“La ragazza era docile ma muta. Dopo che la prendemmo, insieme ai

miei amici Maina Kimani ed Amstrong Kunte, la stuprammo a turno.

Ma quando ero sul punto di fare un secondo giro, mi insultò. Mi chiamò

vigliacco. Dalla mia prospettiva tribale questa è l’offesa più grave

che una donna può rivolgere a un uomo. Ho fatto ciò che dovevo, ho

premuto il grilletto della mia colt e ho finito la signora”.

Dopo questa confessione, Macho Man, spense il registratore.

“Dov’è la pistola?”, gli chiese con noncuranza.

“E’ qui”.

Prima di prenderla, Macho indossò un paio di guanti che aveva preso

dalla tasca dei pantaloni.

Poi si rivolse all’uomo: “Signor Kip Edwards, ha mai sentito il detto,

il comune sentire si raggiunge solamente dopo la guerra? Lei è stato piuttosto

sciocco. Lei ha ucciso una povera ragazza innocente. Non è il modo

in cui io agisco. Non danneggio i deboli. Sono il mio sangue, la mia

gente. Lei ha ucciso i miei legami di sangue e subirà una sorte simile.

Ecco i suoi 200.000 scellini, non ho bisogno di un penny in più o in meno

di questi soldi. Il comune sentire deve prevalere. Mi capisce?”.

“Per favore Macho Man, cosa vorresti fare?”.

“Non posso rispondere, Kip. Voglio che lei scriva quello che le detterò

in quel block-notes là”.

Nero su bianco, Kip cominciò a scrivere sotto dettatura:

“Io, Kip Edwards, desidero pagare il pieno prezzo per essere stato insensibile

al povero e specialmente a Irene Kathure che ho ucciso con

una pallottola dopo averla stuprata ripetutamente insieme ai miei amici.

Io accetto questa giustizia di senso comune”.

Nel momento in cui sollevò la penna, una pallottola gli forò la tempia sinistra

lasciando la sua bocca aperta per la sorpresa, mentre cadeva sul pavimento

ricoperto di tappeti e cominciava il viaggio verso l’eternità.

 

PARTE 14

Fu il vicino che chiamò la polizia dopo avere sentito quello che era sembrato

un colpo di pistola. E in pochi minuti la polizia era arrivata. C’era-

no molti motivi per uno scoop. Al sorgere del sole, tutti i canali trasmettevano

la notizia che l’assassino di Kathure era stato giustiziato dalla pallottola

di un killer. Ora era ovvio che la polizia non aveva indizi sull’assassino

o sul luogo dell’omicidio.

A casa del professor Miriti, i preparativi per la sepoltura fervevano quando

filtrarono le prime notizie. La signora Miriti era, in un certo senso, contenta.

Ma doveva telefonare a suo marito per renderlo partecipe della notizia.

Mentre trotterellava verso la cabina del telefono locale, si permise

un sorriso dopo un mese di intenso tormento.